Che cos’è l’alessitimia?

Il termine alessitimia è stato coniato negli anni settanta da John Nemiah e Peter Sifneos, per definire un tratto di personalità, cioè una caratteristica tendenzialmente stabile, presente nei pazienti con disturbi psicosomatici (quali ulcera gastroduodenale, asma, eczema ecc ecc). Il termine alessitimia deriva dal greco alexis thymos e tradotto in senso letterale significa “assenza di parole per le emozioni. Nello specifico, il termine alessitimia rappresenta un disturbo delle capacità affettive e simboliche che rende grigio e sterile lo stile comunicativo delle persone con questo tratto marcato.

L’alessitimia comporta una serie di difficoltà rispetto a:

  • Decifrare, comunicare e interpretare i propri e gli altrui sentimenti;
  • Distinguere le emozioni dalle percezioni fisiologiche;
  • Capire i fattori che causano le proprie risposte emotive;
  • Utilizzare il linguaggio verbale come strumento per esprimere le emozioni, con conseguente tendenza a sostituire la parola con l’azione fisica.

Taylor, Bagby e Parker (2000) a tal proposito, hanno considerato l’alessitimia un disturbo dell’elaborazione degli affetti che interferisce con i processi di auto-regolazione emotiva. Questo deficit può essere una causa alla base della tendenza della persona alessitimica ad attuare alcuni comportamenti compulsivi quali: gettarsi nel cibo, abusare di sostanze o di internet e social media, quali mezzi grossolani per scaricare la tensione generata da un’attivazione emotiva non intercettata, capita né elaborata.

Una persona alessitimica presenta un comportamento apparentemente normale, non suscita particolare attenzione, ma può avere posture rigide, non è tipicamente espressivo e comunicativo, può avere esplosioni di rabbia o scoppi di pianto inconsolabile di cui non riesce a comprendere le cause. Ha un’immaginazione impoverita, e scarsa attività onirica, cioè dei sogni. Pur avendo una attivazione fisiologica congrua in presenza di emozioni, non ha sufficiente capacità di riorganizzare gli elementi della propria esperienza corporea e affettiva in una rappresentazione mentale chiara, in un modello mentale definito.

L’alessitimia è un fenomeno molto variegato, risultato di fattori genetici, neurofisiologici , intrapsichici, oltre che di modelli di comunicazione  familiare e fattori socioculturali.

L’alessitimia rappresenta un fattore di rischio per disturbi sia organici sia psicologici: coronaropatie, ipertensione, disturbi gastrointestinali, disturbi alimentari, disturbi d’ansia e depressivi, disturbi correlati alle sostanze. Questo accade perchè vi è nella persona un’alta reattività del sistema nervoso autonomo (un ramo del sistema nervoso), fattore implicato nelle somatizzazioni. La persona tende a stabilire relazioni di forte dipendenza o, al contrario, a ritirarsi nell’isolamento, tende, inoltre, a concentrarsi sulle sensazioni fisiche correlate alle emozioni, delle quali ha una scarsa consapevolezza e comprensione, da ciò può derivare una distorta interpretazione di tali sensazioni, che porta a paure ipocondriache, cioè di stare per sviluppare o di avere di già una malattia corporea, anche severa.

Le basi neurofisiologiche

A livello neurofisiologico, essendo l’emisfero cerebrale sinistro coinvolto nel linguaggio, mentre il destro nell’elaborazione delle emozioni, è probabile che la scarsa comunicazione tra gli emisferi e il deficitario funzionamento dell’emisfero destro siano le cause dell’alessitimia. Esistono poi due tipi di alessitimia: quella di tipo 1, caratterizzata dall’assenza di attivazione emotiva, e quella di tipo 2, che comporta solo un deficit di decodifica cognitiva e di espressione delle emozioni. Tali problematiche sono da considerarsi come esiti di eventi traumatici che hanno spezzato abilità precedentemente acquisite o come esiti di uno sviluppo inadeguato delle facoltà di mentalizzazione, cioè di rappresentazione della mente propria ed altrui. Tali facoltà si sviluppano già dai primi anni di vita per mezzo di un ambiente favorevole dove il bambino viene aiutato ad ascoltare, conoscere e comunicare i propri vissuti interni con comportamenti funzionali e con un vocabolario via via più esteso e ricco. Questo tratto stabile di personalità è maggiormente presente negli uomini, dato il retaggio culturale che spinge nell’educazione dei bambini maschi a insegnare loro abilità pratiche anziché quelle affettive e relazionali.

La Psicoterapia

Da un punto di vista terapeutico, è fondamentale riabilitare la persona a prendere contatto con il proprio mondo interno, dal quale tende a fuggire e che gli appare del tutto misterioso, per costruire le competenze di base dell’intelligenza emotiva, vale a dire intercettare l’emozione differenziandola dalle sensazioni corporee, distinguerla e decifrarla correttamente, imparare ad incanalarla in un linguaggio espressivo e verbale congrui. Tutto questo processo, lungo ma soddisfacente, ridà alla persona le chiavi per accedere al suo mondo interiore e gli strumenti per interagire con gli altri costruendo relazioni amicali, familiari e di coppia articolate e reciproche. Per saperne di più sul mondo delle emozioni, nonchè approfondire la tua conoscenza sulle singole emozioni, le caratteristiche e i significati, ti invito a leggere tutti gli articoli dedicati su questo blog. Buona lettura! Se ti ritrovi nei comportamenti alessitimici che trovi descritti, se questo procura sofferenza a te e a chi ti sta intorno, valuta di richiedere un primo colloquio clinico, in cui possiamo inquadrare la tua situazione e ipotizzare un percorso idoneo per te.
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In questo articolo voglio parlarti di un aspetto fondamentale all’interno del grande tema delle emozioni: il problema del discontrollo e dell’ipercontrollo emotivi. Ti ricordo che, cercando dentro a questo blog con la lentina “Gestione delle emozioni, puoi trovare moltissimi articoli dedicati a questo tema a me molto caro, di cui mi occupo quotidianamente, in studio e online con i miei pazienti, e sul quale continuo a formarmi con svariati corsi e letture.

Il problema del discontrollo emotivo

Per primo voglio illustrarti in cosa consiste il problema del discontrollo: il discontrollo ha a che vedere con un controllo insufficiente sulle tue emozioni, in questo caso il problema di regolazione consiste in un deficit, un difetto, si parla perciò di disregolazione. Venendo al lato pratico, quando ti trovi in una situazione emotivamente attivante (cioè una situazione che a te suscita certe emozioni, non è affatto detto che sia una situazione dove anche altri proverebbero le tue medesime reazioni), sperimenti un emergere forte, talvolta improvviso o persino travolgente, delle tue emozioni, rispetto alle quali ti senti poco efficace o addirittura impotente. Puoi sentire un’attivazione corporea forte, per cui senti che il respiro, la frequenza cardiaca, la pressione sanguigna, il tono muscolare, le sensazioni viscerali, l’equilibrio e la temperatura cambiano: questa è la parte corporea che sempre si accompagna al manifestarsi di un’emozione e che,  quando vai nel discontrollo, può essere davvero forte. In altri termini, sperimenti quello che viene chiamato sequestro emozionale: sei come imprigionato dalla tua emozione, è lei ad avere il controllo su di te. E’ come se non ti percepissi al comando di te stesso, e hai la sensazione di poter solo aspettare che passi questo tumulto interiore. Quando sei preda del discontrollo emotivo ti ritrovi a comportarti in modi che possono nuocere a te e alle tue relazioni: dici o fai cose che non diresti nè faresti se sapessi regolare meglio le tue emozioni. Puoi arrabbiarti molto con te stesso o vergognarti, perchè in difficoltà nel gestire alcune tue emozioni in situazioni e contesti per te sfidanti. Da qui un calo di autostima e di efficacia personale.

Venendo ora alle cause, occorre che ti ricordi che, come per tutte le questioni che riguardano la salute e il benessere psicofisici, anche in questo caso si parla di cause e con-cause molteplici: in gergo tecnico si parla di “eziologia multifattoriale”, poichè non c’è una sola causa a determinare una caratteristica o un problema, quanto un insieme di fattori. Diverse sono le cause del problema del discontrollo emotivo: alcune vanno rintracciate molto indietro nel tempo, negli ambienti dove trascorrevi la maggior parte del tempo nella tua infanzia e adolescenza, come la tua famiglia o la scuola. Ad esempio, può esserti accaduto di assistere a situazioni dove gli adulti manifestavano discontrollo di alcune emozioni, molto di frequente ansia e rabbia (con attacchi di ansia acuta e panico, esplosioni di rabbia e quant’altro), o di non essere stato aiutato a conoscere e diventare capace di gestire queste emozioni, o di ascoltare storie dove altri manifestavano discontrollo. Talvolta, questo problema può essere imputato a una carente disciplina nella tua educazione, cioè all’assenza di regole chiare sul comportamento da tenere in situazioni emotivamente impattanti. Oppure, può esserti stato passato il messaggio, ovviamente distorto, che una persona che manifesta discontrollo è una persona grintosa, sicura di sè, che non ha paura di manifestare con forza ciò che pensa e ciò che prova: in tal caso hai ricevuto messaggi rinforzanti sul discontrollo, rendendo più probabile che tu lo incamerassi mentalmente e lo mettessi in pratica. Quanto più spesso hai sperimentato il discontrollo su alcune emozioni in passato, tanto più è probabile che ti senta suscettibile a riviverlo oggi e in futuro, poichè è una modalità per te più disponibile di altre, magari utilizzate poco o mai apprese: a meno che non decidi di imparare a regolare meglio le tue emozioni, con strumenti di auto-aiuto, o, se vuoi fare un lavoro più incisivo, intraprendere un percorso di psicoterapia con un professionista.

Il problema dell’ipercontrollo emotivo

Vado adesso ad illustrarti il problema opposto, ma non per questo meno importante: il problema dell’ipercontrollo, che ha a che vedere con un controllo eccessivo sulle tue emozioni, in questo caso il problema di regolazione consiste in un eccesso, si parla perciò di sovraregolazione. Venendo al lato pratico, quando ti trovi in una situazione emotivamente attivante, non sperimenti un emergere forte dell’emozione, al contrario, rimani “freddo”, passami il termine, senza percepire nulla o quasi. Non puoi quindi sentire un’attivazione corporea forte, per cui i parametri fisici che prima ti ho elencato non cambiano sostanzialmente: non fai l’esperienza dell’emozione. In altri termini, sperimenti quello che viene chiamato blocco emozionale: sei in uno stato simile a un congelamento emotivo. E’ un restare impassibile, come se non fossi sfiorato dalla situazione in cui ti trovi. Quando vai nell’ipercontrollo emotivo ti ritrovi a comportarti in modi controproducenti per te e chi ti sta vicino, ma in un modo diverso rispetto al discontrollo: senti poco contatto con te stesso, con la tua parte più profonda, dove risiedono i tuoi bisogni, desideri e scopi autentici, puoi percepirti bloccato, o meccanico, e questo può portarti a relazioni più povere emotivamente.

Come ti ho spiegato per il discontrollo, diverse e molteplici sono le cause del problema dell’ipercontrollo emotivo: alcune vanno rintracciate molto indietro nel tempo, negli ambienti dove trascorrevi la maggior parte del tempo nell’infanzia e nell’adolescenza, come la tua famiglia o la scuola. Ad esempio, può esserti accaduto di assistere a situazioni dove gli adulti manifestavano l’ipercontrollo di alcune emozioni, molto di frequente tristezza, piacere/gioia e rabbia (situazioni dove c’era il tabù di queste emozioni, indicibili e quindi inesprimibili), o di non essere stato aiutato a conoscere e gestire in modo equilibrato queste emozioni, o di ascoltare storie dove altri manifestavano ipercontrollo, o di essere stato lodato quando non reagivi emotivamente alle situazioni. Talvolta, questo problema può essere imputato a un eccesso di disciplina nella tua educazione, cioè a regole troppo rigide sui comportamenti da tenere, e puoi aver imparato che controllarti, inibire le tue emozioni e la tua spontaneità sono qualità indiscusse e degne di approvazione. In questo caso hai ricevuto messaggi rinforzanti l’ipercontrollo, creando nessi di significato tra questa strategia di regolazione emotiva e l’immagine di te, o il valore personale.

Quanto più spesso hai sperimentato l’ipercontrollo su alcune emozioni in passato, tanto più è probabile che ti senta suscettibile a riviverlo oggi e in futuro, poichè è una stratagia divenuta preferenziale o automatica; a meno che non decidi di imparare a regolare meglio le tue emozioni, con strumenti di auto-aiuto, o, se vuoi fare un lavoro più incisivo, intraprendere un percorso di psicoterapia con un professionista. 

I traumi

Un altro fattore che voglio citare è la questione dei traumi e del loro ruolo. Sia il discontrollo che l’ipercontrollo possono anche essere causati da eventi molto stressanti, come i traumi, che, spezzando i tuoi equilibri, possono compromettere la tua capacità di gestire le emozioni e condurti a sperimentare montagne russe come pure appiattimento ed anestesia emotivi. Un trauma, per definizione, è un evento che supera le capacità di adattamento dell’individuo, che ne viene sopraffatto, travolto, e sperimenta, oltre a uno tsunami emotivo, conseguenze sul breve, medio o anche lungo termine su più piani: cognitivo (cioè convinzioni e pensieri distorti su se stesso, gli altri e la vita), fisico (i traumi hanno un impatto sul corpo, su apparati e sistemi, contribuendo all’aggravamento di patologie già presenti o all’esordio di nuove patologie) e comportamentale (l’individuo può modificare alcuni suoi comportamenti, ad esempio evitare luoghi, persone o attività che gli risultano attivanti per i ricordi traumatici).

Suggerimenti pratici

Il discontrollo e l’ipercontrollo sono due problemi trasversali a una serie di condizioni cliniche, cioè di patologie psicologiche, e possono anche comparire entro la stessa patologia, in momenti differenti. Per citare solo alcune patologie in cui risultano evidenti, posso citare i disturbi di personalità del cluster B, caratterizzati da drammaticità ed amplificazione emotive, instabilità personale e nelle relazioni e impulsività, come i quadri Borderline, Narcisistico, Antisociale e Istrionico. In questi quadri è ampiamente presente il discontrollo emotivo, come pure è riscontrabile nei disturbi dello spettro bipolare, come il disturbo Bipolare di tipo I, di tipo II, e il disturbo Ciclotimico, nelle dipendenze comportamentali (gioco d’azzardo, abuso di internet) e nei disturbi correlati all’uso di sostanze. Tipicamente il problema dell’ipercontrollo è presente nei disturbi di personalità con prevalente inibizione/coartazione emotiva, come quelli del cluster C, caratterizzati da ansia, evitamento e rigidità, ad esempio i quadri Evitante e Ossessivo-Compulsivo. Torno a dirti, comunque, che sia il discontrollo che l’ipercontrollo possono coesistere nella persona che presenta una patologia psicologica (o un malessere di minore entità).

Venendo adesso alla parte terapeutica, ti dico che, per combattere gli automatismi alla base del discontrollo e dell’ipercontrollo, occorre sviluppare quante più possibili alternative di risposta: devono essere numerose così che nelle situazioni critiche avrai un ventaglio di alternative cui attingere anzichè il solito automatismo, quello che hai appreso in circostanze in cui ti era utile e che hai poi generalizzato a molte altre situazioni. Questa sperimentazione, paziente, metodica e persino giocosa, rappresenta la modalità più proficua per riacquisire davvero padronanza ed efficacia personale. Non ci sono scorciatoie, la mente umana è complessa, tu sei un essere complesso e multisfaccettato, per cui è bene che adotti una visione il più possibile ampia e panoramica su di te per poter lavorare in modo incisivo. 

Per aiutarti a gestire meglio le tue emozioni e liberarti dai problemi di discontrollo o di ipercontrollo ti suggerisco di iniziare dai suggerimenti che trovi negli altri articoli di questo blog poiché troverai una panoramica sul ricco mondo delle emozioni, capirai in che modo avviene il cambiamento attraverso le emozioni, oltre ad un percorso di auto-aiuto in 5 step spiegato passo dopo passo. 

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Che cos’è l’autocompassione

La compassione si può definire come la capacità di riconoscere la sofferenza unita alla deliberata intenzione di alleviarla. In questo articolo mi voglio concentrare esclusivamente sull’autocompassione, vale a dire la capacità di rivolgere questo atteggiamento di gentile sollecitudine ed amorevolezza verso te stesso.

Quante volte ti sarà capitato di commettere degli errori, magari anche di ripetere i medesimi più e più volte, e trovarti con la testa fra le mani criticandoti duramente? O magari rivolgendoti parole offensive? A me è successo parecchie volte, perchè, naturalmente, concetti come questo dell’autocompassione (al contrario della compassione verso gli altri) non hanno fatto parte del mio background personale e della mia educazione fin dall’infanzia: sono cresciuta con una tendenza spiccata all’autocritica e all’autobiasimo, come moltissime persone del resto; tendenza che mi ha portata ad accumulare non poca frustrazione nei momenti di difficoltà.

I problemi della mancanza di autocompassione

Sì, il problema principale dell’eccedere nell’autocritica sta proprio qui: di fronte ad un problema, ad una situazione fonte di sofferenza, non sei capace di prenderti cura di te e di autosostenerti per giungere a delle conclusioni e a individuare possibili soluzioni. Quando manchi di autocompassione l’esito più comune sta nel rimanere incastrato in un loop negativo, un circolo vizioso in cui al problema segue la difficoltà o impossibilità a trovare una soluzione praticabile, da qui il forte rimuginio associato ad un dialogo interiore autocritico che può risultare particolarmente distruttivo quando ti “bombardi” letteralmente di insulti, parole che molto difficilmente rivolgeresti ad un’altra persona. Da questo circolo vizioso emerge uno stato d’animo caratterizzato da intense frustazione, impotenza, rabbia, persino colpa e vergogna per il ritrovarti a fare i medesimi errori o, in altri casi, per il non sentirti all’altezza della situazione attuale. A questo crogiolo di stati d’animo dolorosi, poi, associ spesso il confrontarti con quello che altri nella tua situazione avrebbero dimostrato di saper fare: il risultato è sentirti “inferiore, debole” rispetto agli altri; senza renderti conto che in questo confronto puoi essere non obiettivo e giudicarti da una lente ingiustamente negativa. In sintesi, i problemi derivanti dalla carenza (o dalla mancanza) di autocompassione sono i seguenti: 

  1. Frustrazione e rabbia: ti vedi incapace di risolvere il problema attuale o di trovare escamotage per tirartene fuori;
  2. Senso di colpa e vergogna: ti senti inadeguato a causa dei tuoi errori, che concepisci come fallimenti totali e che senti come il “marchio” della tua inadeguatezza;
  3. Impotenza: ti senti senza speranza di poter risolvere i problemi futuri, come in trappola;
  4. Difficoltà a porti nuovi obiettivi: schiacciato dalla sofferenza, puoi persino evitare di porti nuove mete, nuovi obiettivi, con la previsione più o meno certa di non saperli portare avanti con successo.

Le componenti dell’autocompassione

Kristin Neff, eminente studiosa nel campo, definisce l’autocompassione sulla base di 3 componenti chiave: la gentilezza verso te stesso, il senso di comune umanità e la mindfulness. Di seguito te ne parlo in dettaglio:

  1. La gentilezza verso te stesso: rispetto all’autocritica e all’autobiasimo, che, come hai visto, possono risultare marcatamente distruttive poichè azzerano le tue risorse; la gentilezza verso te stesso ti aiuta ad essere gentile, premuroso e sollecito nei tuoi confronti. Non si tratta assolutamente di essere indulgente laddove serva un’autoanalisi realistica: essere gentile verso te stesso non ti porta a deresponsabilizzarti, tutt’altro, ti mette in uno stato d’animo favorevole a comprendere i tuoi errori e i tuoi limiti al fine di superarli;
  2. Il senso di comune umanità: a differenza dell’isolamento o, peggio, dell’alienazione, vale a dire stati in cui ti senti diverso in negativo rispetto agli altri, solo, incompreso e smarrito; il senso di comune umanità ti facilita nel pensarti come una persona appartenente al genere umano. Ti consente, quindi, di sentirti simile al tuo prossimo, più vicino agli altri (cosa non di poca importanza poichè ti legittima nel chiedere aiuto agli altri anzichè blindarti in uno stagnante isolamento). Sentendoti un umano circondato da altri umani, puoi sperimentare le tue difficoltà come ingredienti della naturale condizione umana anzichè come marchio della tua inadeguatezza di fondo (se conosci la sensazione di “sentirti sbagliato”, sai a che cosa mi riferisco).
  3. La mindfulness: a differenza dell’identificazione con i tuoi contenuti mentali, vale a dire pensieri, convinzioni, emozioni e impulsi, tendenza che ti conduce a fonderti completamente con essi e a perderti nei loro meandri; la mindfulness, quale facoltà che ti mette in grado di prestare attenzione in modo intenzionale e non giudicante all’esperienza presente, ti aiuta ad essere pienamente consapevole dei tuoi contenuti mentali, di quello che pensi, senti e provi, senza sentirti trascinato o restare invischiato in tutto questo.

I benefici dell’autocompassione

Numerosi studi hanno dimostrato che persone con punteggi elevati di autocompassione mostrano una minore vulnerabilità a disturbi d’ansia e dell’umore (stati depressivi), maggiori resilienza (ebbene sì, coltivare l’autocompassione ti rafforza e ti rende più equipaggiato a superare eventi difficili), ottimismo, livelli di soddisfazione generale nella vita, serenità e relazioni interpersonali, dall’altra parte, chi ha elevata autocompassione presenta minori probabilità di avere paura di sbagliare o di fallire, rimuginio e autopunitività (cioè la tendenza a biasimarti così duramente da punirti con insulti o comportamenti autolesivi). Sì, lo testimoniano gli studi scientifici come pure lo riportano i resoconti di persone che hanno avviato un percorso di psicoterapia (o altri percorsi volti alla crescita personale): chi coltiva l’autocompassione ha una migliore qualità di vita e, a differenza di quello che a prima occhiata potresti pensare, non manca di giudizio critico su di sè: semplicemente sa servirsene meglio, in modo funzionale, anzichè farsene sommergere e azzerare in questo modo le proprie risorse. Non ti sto dicendo che provare autocompassione sia semplice, talvolta puoi pensare di non meritarti questo “dono”, puoi sentirlo come non familiare, soprattutto se, durante la tua crescita, non hai vissuto frequentemente situazioni dove ti sei sentito accolto e apprezzato in quanto persona (a prescindere dalle tue capacità o dai tuoi talenti) dagli altri o hai sperimentato poco calore e comprensione nella tua famiglia. Tuttavia, come ogni facoltà mentale, anche l’autocompassione si può coltivare, si può allenare: se hai già familiarità con la mindfulness ti trovi avvantaggiato, essendo questa una delle 3 componenti chiavi dell’autocompassione. Se non la conosci e sei interessato, ti suggerisco di leggere i miei articoli a riguardo: https://federicapianapsicologa.it/la-meditazione-mindfulness/ https://federicapianapsicologa.it/i-falsi-miti-sulla-mindfulness/ https://federicapianapsicologa.it/resilienza-e-mindfulness/

Un esercizio di autocompassione

Voglio concludere questo articolo sull’autocompassione, concetto (anzi, direi un’esperienza) a me molto caro e che ha cambiato molto in positivo la mia vita e quella dei miei pazienti, proponendoti un piccolo esercizio per aiutarti ad entrare in contatto con questa dimensione, potenzialmente già presente dentro di te ma che può essere ulteriormente potenziata. Di seguito trovi descritto questo esercizio, che si basa sul dialogo interiore. Spero che ti sia utile e che ti introduca a fare un’esperienza di te stesso nuova, fortificante e rasserenante allo stesso tempo.

  • Individua una situazione per te difficile, in cui stai lottando o soffrendo;
  • Da seduto, assumi una posizione che trasmetta dignità e rispetto per te stesso: con la schiena eretta ma non rigida, i piedi paralleli e ben poggiati sul pavimento, la testa allineata con la colonna. Poni una mano sull’addome e l’altra sul cuore: porta l’attenzione al tuo respiro che entra ed esce dal naso e dalla bocca, e che si fa sempre più calmo e regolare;
  • Prova a dire a te stesso: “Questo è un momento difficile per me. Comprendo che il mio dolore fa parte della vita, e che anche altre persone potrebbero sperimentarlo nella mia situazione. Per quanto sia tentato di giudicarmi aspramente, di arrabbiarmi con me stesso o di punirmi, scelgo di essere gentile con me stesso, in questo momento. Scelgo di concedermi la cura e la comprensione di cui ho bisogno”;
  • Accogli il tuo sentire mentre ti rivolgi queste parole. Mantieni il contatto con questa esperienza, anche se può all’inizio sembrarti “strana” o difficile. Non distrarti, non fuggire: se ti accorgi di vagare con la mente o di rimuginare sull’esercizio, riconnettiti al tuo respiro, calmo e regolare;
  • Ripeti questo esercizio ogni volta in cui sei portato ad affossarti mentre fai i conti con una situazione difficile. Lascia che queste parole si depositino sempre più profondamente dentro di te. Impara ad essere il primo alleato di te stesso!

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Autosabotaggio: quando diventi il tuo peggior nemico

L’autosabotaggio è un meccanismo che si verifica quando, pur desiderando molto qualcosa, entrano in gioco dinamiche che ti impediscono di ottenerlo. In pratica diventi il peggior nemico di te stesso: ti incastri in circoli viziosi per cui, spesso inconsapevolmente, finisci in dinamiche dannose per il tuo pieno benessere e non raggiungi i tuoi obiettivi.

Oggi ti illustro le 4 principali cause dell’autosabotaggio.

Spesso questo accade perchè possiedi aspettative irrealistiche. Miri al perfezionismo: cioè credi che, non essendo un esperto in un campo, tu non possa produrre buoni risultati in quel campo. In questo caso non agisci perchè credi di non essere abbastanza capace, di essere da meno.

Oppure l’autosabotaggio si verifica quando pensi di non meritarti il successo: in questo secondo caso metti in atto comportamenti che rendono molto più probabile il fallimento del successo, un esempio ne è l’eccedere col bere prima di un esame importante. In tal caso non immagini te stesso all’altezza di raggiungere considerevoli traguardi perchè magari non hai ricevuto messaggi di fiducia e di incoraggiamento fin da piccolo.

Talvolta puoi essere mosso da una motivazione estrinseca, cioè sei spinto a raggiungere un determinato traguardo per soddisfare aspettative altrui: l’autosabotaggio in questo caso ti informa che sei sulla strada sbagliata e che occorre reimpostarla sulla base di obiettivi soltanto tuoi, così da riallinearti con quello che vuoi veramente.

In altri casi ancora puoi temere le conseguenze del successo: dentro di te hai troppa paura di non saper sostenere gli effetti collaterali del tuo successo, come cambiamenti nel tuo ambiente e nelle relazioni con gli altri.

Il punto è che questo subdolo meccanismo avviene sulla base di alcuni modi distorti di pensare e di immaginare il tuo futuro e il cambiamento: ti prefiguri scenari disastrosi fatti di conseguenze terribili, quali l’essere abbandonato o rifiutato, criticato, deriso o diventare oggetto di invidia da parte di altre persone.

L’autosabotaggio in questo senso ti protegge dall’andare incontro a queste conseguenze, ti tiene al riparo da situazioni da te percepite come non sostenibili, purtroppo, al contempo ti fa temere molto l’incertezza, facendoti affezionare sempre di più a ciò che è prevedibile e sotto il tuo controllo. Ferma la tua crescita.

Le ragioni principali dell’autosabotaggio risiedono proprio in determinati modi di pensare a te stesso, cioè in delle credenze su te stesso piuttosto radicate e spesso risalenti all’infanzia e a periodi della vita in cui hai avuto esperienze molto impattanti.

Queste credenze si sono sviluppate in conseguenza di tali esperienze e continuano ad esercitare un effetto su di te, effetto particolarmente visibile nel momento in cui provi a cambiare la tua situazione in qualche ambito della tua vita (amicizie, famiglia, lavoro o coppia) e ti imbatti in ripetute difficoltà. Le conseguenze di questi ripetuti insuccessi sono una grande frustrazione, il dubitare costantemente di te e delle tue capacità, fino all’impotenza e al blocco nell’azione.

Ti voglio dare alcuni spunti per aiutarti a superare l’autosabotaggio.

  • Come prima cosa occorre entrare in una prospettiva in cui ti riprendi la responsabilità sulla tua vita: metti al centro te stesso, i tuoi valori e i tuoi reali bisogni e continui a perseguirli.
  • la seconda cosa è diventare consapevole delle credenze negative su di te che finora ti hanno impedito di raggiungerli.
  • la terza cosa è lavorare su tali credenze per individuarle quando entrano in gioco e ribaltarle con credenze più funzionali, imparando a dare valore a te stesso, a riconoscere che sei importante e che meriti di stare bene e di crescere.

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Fallisci nel raggiungere i tuoi obiettivi?

In questo articolo voglio parlarti di obiettivi, dei motivi per cui non riesci a raggiungerli e di come poter risolvere questo problema guadagnando in produttività e soddisfazione personale.

Sono certa che anche tu hai degli obiettivi adesso e ne hai avuti in passato, talvolta sei riuscito a raggiungerli, altre volte, forse molte volte, purtroppo no. Ti dico subito che non esiste un metodo geniale per raggiungere i tuoi obiettivi: in molti parlano di questo argomento e altrettanti propongono metodi i più diversi per metterli a segno. In questo articolo non tirerò fuori un eccezionale metodo mai visto, piuttosto, ti aiuterò a modificare la tua prospettiva mentale ed operativa, rendendoti più semplice raggiungere i tuoi obiettivi in qualunque campo.

Sei d’accordo con me che essere produttivo è una qualità fondamentale? Lo sei davvero quando sei in controllo del tuo tempo, sai gestirlo al meglio, non ne sei schiacciato ma sai mettere il tempo al servizio dei tuoi obiettivi e scopi. Sicuramente rivedere periodicamente i tuoi obiettivi ti aiuta a realizzare dove ti trovi sul cammino: spesso proprio alla fine dell’anno fai un bilancio dei successi e dei fallimenti e ti predisponi ad iniziare il nuovo anno con nuovi e più ambiziosi obiettivi.

Se fissarli è sicuramente un caposaldo irrinunciabile, è altrettanto vero che spesso non riesci a raggiungere i tuoi obiettivi: ti “perdi per strada”, ti dimentichi quasi degli obiettivi che ti sei prefissato, ti fai fuorviare dalle vicissitudini del quotidiano o dagli imprevisti, perdi la motivazione, ti fai influenzare negativamente dalle opinioni altrui. In sostanza, non ce la fai, molli, fallisci.

Il punto è che gli obiettivi da soli non bastano, per farli funzionare ti occorre altro. Mi riferisco ad un sistema: è questa la chiave di volta che ti indirizza verso il tuo successo. Prima di passare a illustrarti questo sistema, voglio dirti che come prima cosa devi accertarti che i tuoi obiettivi siano ben definiti. Un obiettivo per essere tale non è un sogno, è una meta realistica, è preciso e circoscritto (usa parole chiare per descriverlo), è temporizzabile, cioè raggiungibile in un arco di tempo ipotetico definito.

Gli obiettivi, per quanto essenziali poiché in assenza di questi non hai dei motivi validi per smuoverti, non sono sufficienti per il successo anche perché presentano dei limiti.

Come prima cosa voglio dirti che la differenza principale tra chi raggiunge maggiormente i propri obiettivi e chi molla e si dà per vinto è proprio la presenza nel primo caso di un sistema, cioè una mappa che orienta il percorso verso il successo. Se ti fissi esclusivamente sui tuoi obiettivi, entri in una visione “a tunnel” per cui non sei soddisfatto fino a quando non li hai raggiungi, cioè postponi la tua felicità al dopo, e poi hai un calo dell’umore dopo che li hai raggiunti, come se si creasse un vuoto e tu non avessi più alcuna motivazione. Inoltre, essere fissato sugli obiettivi in modo improprio fa sì che tu ci metta tutta la tua energia, togliendola da altri potenziali stimoli positivi che circolano nella tua vita.

Quando essere diretto verso un obiettivo presuppone una mentalità rigida puoi anche non cogliere i mutamenti nell’ambiente circostante e nella tua vita: magari sei fissato a raggiungere quell’obiettivo da qui ad un anno e per far ciò resti indietro su altre cose interessanti o fruttuose per te.

Bene. Ora vengo al concetto di sistema. Il sistema è una struttura composta da azioni ripetute ad un certo ritmo, una tantum ma soprattutto giornaliere, che ti consentono di acquisire nuove abilità e competenze e di rafforzarne di precedenti, accompagnandoti giorno dopo giorno verso gli obiettivi che ti sei prefissato. Quando utilizzi un sistema non incappi nei limiti che ti ho descritto per quanto riguarda gli obiettivi: fare ogni giorno o ad una certa cadenza determinate azioni ti fa entrare in un processo virtuoso per cui sei tendenzialmente sempre contento, poiché “ti godi la tua andatura”, sai che stai costruendo qualcosa che giorno dopo giorno diventa più sostanzioso.

Inoltre, la tua visuale è più ampia ed aperta agli stimoli che ti circondano. Guadagni in flessibilità e produttività, poiché non vai avanti a caso o “a ispirazione”, ma segui una mappa precisa che tu stesso hai costruito adattandola alle tue necessità.

Voglio ora illustrarti come impostare il tuo sistema personale volto a farti raggiungere i tuoi obiettivi. Non si tratta di un approccio da me creato, ma è esposto nel libro di Brian Fogg “Il metodo Tiny Habits: la rivoluzione a piccoli passi”.

Ecco i passi necessari da seguire per crearti una mappa super efficace verso il raggiungimento dei tuoi obiettivi:

  1. Il primo ingrediente è individuare il tuo “Perchè”: occorre che tu abbia un validissimo perché, cioè un’alta motivazione che ti faccia iniziare e ti sostenga lungo tutto il percorso. Devi avere una motivazione ancorata ai tuoi valori e provenire da te e solo da te, non da qualcun altro o dalle norme socio-culturali, dev’essere pertanto intrinseca.
  2. Trova tutte le azioni, i comportamenti pratici, una tantum e quotidiani, da mettere in pratica: anche se non le individui tutte, all’inizio parti con quelle essenziali così da crearti una base.
  3. Individua la versione più piccola di queste azioni essenziali: individua delle micro-azioni alla tua portata, così da scavalcare il senso di sovraccarico che potrebbe bloccarti già alla partenza.
  4. Poi creati le condizioni per mettere in pratica queste micro-azioni: semina nel tuo ambiente degli oggetti che facciano da promemoria, così da facilitarti. Ricorda: semplificare è fondamentale!
  5. Aggancia queste microazioni ad un’abitudine che già segui così da rendere tali azioni più piacevoli: può trattarsi di fare le tue microazioni in un particolare momento della giornata, come prima di colazione, in un coffee break di metà mattina, al tuo ritorno da lavoro o prima di andare a letto.
  6. Datti un feedback: sia personale sia dagli altri. Chiediti come sta andando il tuo percorso verso i tuoi obiettivi, chiediti quante abilità stai imparando o migliorando che ti conducono verso quegli obiettivi, e come ti senti emotivamente in questo processo. Chiedi poi ad altri di darti un feedback rispetto al tuo percorso. Non temere i giudizi, ogni feedback è un alleato prezioso per raddrizzare la rotta e aumentare la tua concentrazione verso gli obiettivi.
    Non temere di sbagliare, ogni errore è benvenuto: sappi coglierne il messaggio e vai avanti.
  7. Lo step finale è aggiornare e rivalutare il tuo sistema, cioè questa struttura dove hai calato i tuoi obiettivi. Valuta i progressi e nota i regressi, rifletti su possibili modifiche da apportare al sistema così che diventi più agile ed efficace. Guarda se il sistema che hai adottato ti sta aprendo nuove porte: ricorda di non fissarti unicamente sugli obiettivi finali, ma innamorati del processo in cui ogni giorno metti dedizione ed energia.
  8. Premiati per ogni successo: questo è uno step trasversale che permea l’intero sistema. Ogni giorno puoi essere grato a te stesso per quello che stai facendo, per i tuoi risultati e per l’impegno costante che ci stai mettendo. Premiati per ogni successo: festeggiati, accompagna ogni piccolo o grande risultato con un riconoscimento positivo a te stesso!

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Resilienza e Mindfulness 

Come la consapevolezza ti rende più forte davanti allo stress.

in questo articolo ti parlo di come puoi ridare slancio alla tua vita da un punto di vista psicologico, riorganizzandoti e continuando a perseguire i tuoi obiettivi in un momento difficile come questo in cui stiamo vivendo la pandemia globale da covid-19. Ti parlo dell’interessante legame che c’è tra resilienza e meditazione Mindfulness.

La resilienza è un termine di cui si parla molto spesso e che deriva dalla fisica dei materiali. In questo campo la resilienza indica la capacità di un materiale di assorbire gli urti e non spezzarsi, ma ritornare alla sua forma originaria. In psicologia, invece, la resilienza indica la capacità di affrontare eventi dolorosi e stressantii e di superarli continuando a crescere grazie all’utilizzo delle tue risorse: ne scaturisce una riorganizzazione positiva della tua vita che progredisce mantenendosi ricca di significati.

Non si tratta dunque solo di superare l’evento stressante in sè per sè, nel momento in cui si presenta e ti mette a dura prova, ma, soprattutto, della capacità di adattamento ed evoluzione personali che sono possibili utilizzando le tue risorse già disponibili e sviluppandone anche di nuove in modo creativo, sempre nuovo.

Attualmente ci troviamo nella seconda ondata della pandemia da covid-19. Siamo di nuovo alle prese con restrizioni e regole che minacciano il nostro equilibrio psico-fisico: siamo alle prese con un marasma di emozioni spiacevoli, quali rabbia e frustrazione per i limiti alla libertà, la paura per il contagio e per i pesanti risvolti economici, lo smarrimento per il non sapere quando la pandemia cesserà, infine il dolore per le numerosissime morti.

Per promuovere un sano adattamento e aiutarti a superare questo periodo molto stressante occorre usare un approccio “strategico” alla situazione che preveda la costruzione di buone abitudini, di buone pratiche che portano salute e benessere alla mente e al corpo e che ti infondono un senso di sicurezza. Tra queste la meditazione Mindfulness si dimostra molto utile, poichè si è visto da numerosi studi che praticarla ti procura moltissimi benefici. La Mindfulness è una pratica che deriva dall’antichissima meditazione di consapevolezza di origine buddhista che è stata portata in Occidente a fine degli anni ’70 dal medico statunitense Jon Kabat-Zinn.

Allenandoti a stare nel presente, ancorandoti al tuo respiro e al tuo corpo, e a rallentare dalla frenesia del quotidiano, la Mindfulness ti aiuta a ridurre la tua reattività, cioè i momenti in cui “scatti” ed agisci d’impulso, come guidato da un pilota automatico. Grazie alla Mindfulness diventi più in grado di rispondere agli eventi con consapevolezza, anzichè reagire in modo automatico, sei perciò più flessibile psicologicamente e sai regolare efficacemente le tue emozioni, senza l’urgenza di scaricarle sugli altri o semplicemente sfogarle su varie cose e attività.

Praticando la Mindfulness alleni poi il tuo cervello a disinnescare il pilota automatico e a predisporre modalità più equilibrate di risposta: infatti si è visto dagli studi di neuroimaging che diminuisce l’attività della corteccia prefrontale destra, più associata alle emozioni spiacevoli, ed aumenta l’attività della corteccia prefrontale sinistra, più associata alle emozioni piacevoli. Inoltre, divieni capace di guardare ai tuoi pensieri, emozioni, bisogni e comportamenti senza giudizio ed autocritica, ma con maggiore amorevolezza e con il desiderio di conformare le tue azioni a ciò che provi davvero e ai tuoi valori reali. La pratica della Mindfulness ti favorisce quindi nel percorrere un sentiero personale in cui sei realmente te stesso, genuino ed autentico.

Praticare la Mindfulness ti aiuta a potenziare tre capacità chiave per essere più resiliente, vale a dire più forte e preparato alle avversità: diventi cioè più consapevole e centrato, in grado di vedere e capire te stesso, gli altri e il mondo, capace di regolare autonomamente le tue emozioni.

Se sei interessato a saperne di più sulla meditazione Mindfulness e a iniziare a praticarla dalle basi ti invito a leggere questi tre articoli: La meditazione Mindfulness: cos’è, a cosa serve e come praticarla. – Dott.ssa Federica Piana (federicapianapsicologa.it), I falsi miti sulla Mindfulness. – Dott.ssa Federica Piana (federicapianapsicologa.it), 3 tecniche per imparare a gestire lo stress – Dott.ssa Federica Piana (federicapianapsicologa.it).

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Quali sono i principali falsi miti in cui ti puoi imbattere quando ti avvicini alla pratica della Mindfulness? In questo secondo articolo dedicato ad una pratica che personalmente adoro e che ha contribuito a cambiarmi davvero la qualità della vita voglio sfatare alcuni falsi miti, comuni dicerie e fraintendimenti, che puoi trovare sia da principiante sia quando ti confronti con persone che non hanno alcuna esperienza della Mindfulness.

1 – La Mindfulness è una tecnica di rilassamento.

Si tratta di una particolare forma di meditazione: per quanto assumere una postura comfortevole e portare ripetutamente la tua attenzione sul respiro possa produrre un certo effetto rilassante, lo scopo della Mindfulness non è farti ottenere uno stato di distensione e rilassamento psicofisici. Se sei interessato a questo ti consiglio di dare un’occhiata a questa pagina: http://federicapianapsicologa.it/training-autogeno-schultz/, dove illustro in maniera generale il più valido metodo di rilassamento che è il Training Autogeno. Se l’argomento ti appassiona posso suggerirti di approfondire con gli articoli che trattano uno ad uno gli esercizi del Training Autogeno che utilizzo sia in individuale che nei percorsi di gruppo, li trovi nella sezione “Gestione dello stress” del blog. Tornando alla Mindfulness, rilassarti può essere un “benefico effetto collaterale” del dedicarti del tempo all’ascolto e alla presenza mentale: tuttavia, qualora nella tua mente comparissero pensieri o emozioni difficili, e nel tuo corpo sensazioni disturbanti, il tuo compito non sarebbe di scacciarli per rilassarti, ma di “accomodartici dentro”, ancorandoti al tuo respiro e imparando a stare in compagnia di tutto quel che c’è.

2 – La Mindfulness è una specie di trance.

Non mi addentro troppo in questo campo perchè non è di mia competenza, ma la Mindfulness non ti porta in uno stato mentale di trance, come avviene con l’ipnosi. In quest’ultima vengono adoperate delle suggestioni mirate allo scopo di attingere a risorse interiori subconsce e a produrre cambiamenti nei tuoi comportamenti e nelle tue credenze.

2 – La Mindfulness è un’oasi felice. Non esiste una scorciatoia per un facile benessere psicofisico, un passpartout per la tranquillità immediata. Non conosco metodi realistici e penso che chi promette ciò non ha un comportamento etico (perciò fai attenzione se ti imbatti in questo tipo di messaggi). Secondo le filosofie orientali da cui la Mindfulness trae origine la felicità equivale alla piena consapevolezza: di te, degli altri e della realtà. Ma non si tratta dell’idea edulcorata, artefatta, di felicità all’occidentale con cui cresciamo fin da bambini: non è un’oasi felice dove puoi rifugiarti semplicemente chiudendo gli occhi e respirando lentamente, mettendoti al riparo dalle storture della vita reale. Non si tratta di questo. Si tratta di saper essere felice quando riesci a vedere in modo cristallino ogni fenomeno, te compreso, e sai sostenere questa visione, che ha aspetti tutt’altro che rosei. E’ la felicità di una mente aperta a conoscere, che sa discernere, che sa vedere, non solo guardare. Per queste ragioni non scambiare la Mindfulness per “l’isola che non c’è”, ma considerala come quella dimensione in cui puoi mettere radici nel presente, sentire che la realtà tutta è la tua casa.

3 – La Mindfulness è adatta solo alle persone calme e riflessive.

Niente di più sbagliato! Al contrario, proprio chi tende ad agire d’impulso, chi si definisce “una testa calda” e cade facilmente preda dell’azione inconsapevole può beneficiare moltissimo della Mindfulness. E’ chiaro che che una persona con un tale temperamento può incontrare maggiori difficoltà rispetto ad una persona meno impetuosa: può trovare difficile restare seduta senza muoversi per più di qualche minuto, come pure spazientirsi alla svelta nel riportare l’attenzione sul respiro o alcune parti del corpo. E allora? Lo stato di presenza a cui ti alleni grazie agli esercizi di Mindfulness è uno stato naturale della mente: finchè sei un bambino riesci ad immergertici più facilmente, come quando stai ore e ore concentrato su un gioco o un’attività che ti appassionano. Crescendo, perdi gradualmente l’abitudine a stare con tutto te stesso sul presente: vaghi con la mente tra passato e futuro, e perdi il legame con l’esperienza nel momento presente. Ma questa facoltà è sempre con te, occorre solo “ripescarla”.

4 – La Mindfulness è un metodo per pensare positivo.

Personalmente non sono una grande fan del pensiero positivo a tutti i costi, ritengo ci siano degli strumenti più utili per promuovere la salute psicologica. Ad ogni modo, come scrivo al punto 2 rispetto al fraintendere la Mindfulness come un’oasi felice, questa pratica, in quanto meditativa, ti aiuta a concentrarti in modo sempre più raffinato e sottile sull’esperienza che si svolge sotto i tuoi sensi momento dopo momento. Non è un modo per elaborare concetti di vario tipo, positivi, d’ispirazione per qualcosa, non ti porta via dal tuo flusso di pensieri che durante la pratica attraversa la tua mente.

5 – La Mindfulness è una pratica new age, esoterica o religiosa:

anche se trae origine dall’antica meditazione di consapevolezza di matrice buddhista, da quando Jon Kabat-Zinn l’ha portata negli ambienti scientifici l’ha depurata dai significati religiosi originari, proprio al fine di renderla utilizzabile da chiunque, in ogni fascia d’età, a prescindere dal credo religioso. Nè i suoi effetti sono riconducibili a una qualche forma di “magia”, ma sono ben documentati da migliaia di ricerche scientifiche. La Mindfulness è oggi una pratica assolutamente idonea per ogni persona che voglia riappropriarsi del tempo per allenarsi alla presenza e alla consapevolezza globale.

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Meditazione Mindfulness

La Meditazione Mindfulness è una forma particolare di meditazione che affonda le sue radici nell’antichità, nella meditazione di consapevolezza, detta Vipassana, di origine buddhista. Questa antichissima pratica risale a più di 2500 anni fa e permea abbondantemente le filosofie orientali.

Nel canone Pali, l’insieme dei testi sacri per il Buddhismo, si rintraccia il termine Sati, che significa letteralmente memoria, ma che va poi ad ampliarsi e viene tradotto con termini quali: coscienza di sè, agilità della mente, lucidità di pensiero e, in senso più integrale, per l’appunto, consapevolezza. In questi testi sacri Sati viene descritto come uno stato di mente vigile che va costantemente allenato perchè è alla base della visione profonda e della comprensione delle cose.

Si parla quindi di felicità come di una condizione che scaturisce dall’essere in pace, e per poter pacificare è necessario essere vigile e discernere in modo limpido. Secondo questi testi e questa antica filosofia, dunque, la felicità equivale alla consapevolezza: sono due facce della stessa medaglia.

Come sono arrivati questi concetti da luoghi così lontani in Occidente? Grazie al lavoro pionieristico di persone che hanno creato un ponte tra questi due mondi: sto parlando, ad esempio, del medico statunitese Jon Kabat-Zinn, praticante da moltissimi anni di meditazione di consapevolezza, che l’ha portata all’attenzione delle discipline scientifiche nell’epoca contemporanea, depurandola dai significati religiosi originari. A fine degli anni ’70 del secolo scorso ha messo a punto un protocollo basato sulla mindfulness per la riduzione dello stress, chiamato Mindfulness-based Stress Reduction, che è stato utilizzato dall’University of Massachussets Medical Center.

Tale protocollo, inizialmente rivolto a persone con dolore cronico e varie patologie organiche, ha iniziato a produrre riscontri notevoli in termini di riduzione dei sintomi e innalzamento dei livelli di benessere soggettivo in persone affette da un’ampia gamma di problematiche psicologiche, dai disturbi d’ansia e dell’umore, alle dipendenze, dai disturbi da deficit di attenzione ed iperattività (ADHD) nei bambini, ai disturbi del comportamento alimentare e del sonno, fino ai traumi psicologici.

Che cos’è di preciso la Mindfulness e come può cambiare la tua vita. E’ una pratica di meditazione che si basa su due pilastri: la concentrazione e la consapevolezza. La prima si riferisce alla facoltà della mente di dirigersi e sostare su un oggetto senza subire troppo l’interferenza di altri oggetti o fattori, senza vagare e distrarsi eccessivamente. La seconda si riferisce alla facoltà della mente di agire in modo intenzionale e proattivo, praticamente è l’esatto opposto dell’agire d’impulso.

Secondo la definizione che ne dà Kabat-Zinn nel suo libro “Vivere momento per momento” la Mindfulness è: “porre intenzione in un modo particolare: intenzionalmente, nel momento presente e in un modo non giudicante”. La Mindfulness è una pratica che insegna a coltivare l’attenzione in modo sano e a guadagnare saggezza. Diventi capace di guardare con occhi limpidi alla realtà interiore ed esteriore, accogliendo con uno spirito di serena e sincera accettazione le cose e gli avvenimenti come pure i contenuti della tua mente.

La pratica della Mindfulness ti aiuta a metter radici nel presente: impari a non disperderti più vagando con ansia nel futuro, magari pensando a come sarai felice quando le cose a lavoro e in famiglia si sistemeranno, o tornando con tristezza e rabbia (talvolta pure con nostalgia) al passato, pensando a cosa sarebbe successo se avessi agito diversamente o a com’era la tua vita “ai tempi d’oro”. Mettendo radici nel presente, conosci in modo profondo te stesso e la realtà esterna: sei presente, nel qui ed ora, a te stesso, ai tuoi pensieri, motivazioni, emozioni e piani d’azione, e agli altri con i quali hai una relazione.

La consapevolezza ti fa da ancora al presente, che è l’unica dimensione temporale in cui puoi agire in modo proficuo e vivere la tua vita a pieno.

Deposte le “armi” della lotta estenuante contro la realtà, gli altri, “le sfortune” e ciò che non ti piace di te, si sprigionano le energie del percepire ogni cosa in modo sensibile, non giudicante, dell’accettare ciò che non può essere cambiato e dell’agire con forza e fiducia verso ciò che può essere cambiato. Se ti alleni a vivere nel momento presente, a dimorare nella consapevolezza globale, impari a prenderti cura di te e degli altri: se sei presente con il cuore e la mente, non abbandoni nè te stesso nè gli altri alla distrazione e alla noncuranza. Non sei solo.

Cosa non è la Mindfulness. Non è una tecnica di rilassamento, (se sei interessato ad un validissimo metodo ti consiglio il Training Autogeno, vai qui: http://federicapianapsicologa.it/training-autogeno-schultz/ ), non rappresenta una specie di “spa della mente” in cui tutto appare più etereo o bello o divieni distaccato in modo “glaciale”, non è una scorciatoia per il benessere psico-fisico (personalmente non ne conosco), nè una specie di trance (l’ipnosi è una pratica diversa) o di modalità passiva in cui accetti ogni cosa con il sorriso o diventi “un mago di bontà”.

Come puoi iniziare a praticare la Mindfulness? E’ una pratica basata sulla meditazione: la svolgi allenandoti con esercizi specifici che coinvolgono il tuo corpo (in posizione seduta o in movimento, come nel camminare) e la tua attenzione. Ti dico subito che non è una facoltà che compare magicamente tutta insieme non appeni inizi la pratica: per quanto sia una facoltà naturale della mente, dato che anche tu come me sei continuamente bombardato da stimoli e molto incline alla perdita dell’attenzione, occorre per l’appunto l’allenamento. Cosa che richiede pazienza, gentilezza, metodo e perseveranza.

Per allenare la tua attenzione a radicarsi nel presente, momento dopo momento, negli esercizi si utilizzano alcuni “supporti o agganci”: il respiro (o più di rado il battito cardiaco), alcune parti del corpo o l’intero corpo; le percezioni dei 5 sensi (gusto, olfatto, udito, vista e tatto), i contenuti della mente (pensieri, immagini, emozioni, ricordi). Imparando giorno dopo giorno a coltivare la presenza mentale, sviluppi una visione del tutto nuova verso te stesso, gli altri e il mondo: sostituisci l’osservazione al giudizio, la calma all’agitazione, l’apertura e la curiosità all’avversione (non voler stare in contatto con quel che non ti piace) e all’attaccamento (volerti aggrappare e prolungare quel che ti piace).

Impari a mettere una giusta distanza tra te e i tuoi contenuti mentali: tra lo stimolo e la tua risposta collochi uno spazio di delicata presenza, dove scongiuri l’agire d’impulso e diventi capace di stare in compagnia di tutto quel che accade, senza ingaggiarti in lotte che non fanno altro che aggiungere altra sofferenza a quella che già scaturisce dagli eventi di vita. Se vuoi saperne di più sugli esercizi pratici di Mindfulness vai a questo articolo: http://federicapianapsicologa.it/3-tecniche-per-imparare-a-gestire-lo-stress/

Voglio concludere questo articolo sulla Mindfulness citando un autore, Viktor Frankl, che ha sperimentato su di sè atroci sofferenze nei campi di concentramento nazisti e ciononostante è riuscito a trarne insegnamento, il quale dice: “Tra lo stimolo e la risposta c’è uno spazio. In quello spazio risiede il potere di scegliere la nostra risposta. Nella nostra risposta stanno la nostra crescita e la nostra libertà”. Ti auguro di aprirti alla Mindfulness con curiosità e fiducia, come farebbe un bambino alle prese con una novità, e di darti una chanche di scoprire che cambiamenti può apportare nella tua vita.

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Fuori dal tunnel: supera il dolore e i traumi con l’approccio EMDR

L’EMDR è un approccio strutturato in 8 fasi che può essere utilizzato solo da uno psicoterapeuta formato per l’elaborazione dei ricordi correlati a esperienze dolorose e traumatiche. La sigla EMDR sta per Eye Movement Desensitization and Reprocessing, cioè desensibilizzazione ed elaborazione attraverso i movimenti oculari. Secondo il DSM 5, il manuale più utilizzato per la classificazione dei disturbi mentali, il trauma è un evento potenzialmente mortale, con pericolo di morte o gravi ferite, o minaccia all’integrità psicofisica propria o di altri, che puoi aver vissuto o a cui hai assistito.

Come per altri fenomeni nel mondo della scienza, viene scoperto per caso nel 1987 dalla psicologa statunitense Francine Shapiro: mentre si trovava a passeggiare in un parco e la sua mente andava su pensieri che la preoccupavano, notò che muovendo gli occhi da destra a sinistra o viceversa guardando gli alberi, iniziava a sentirsi meglio: i suoi pensieri si allontanavano e le sue emozioni perdevano di intensità. Iniziò a confrontarsi con colleghi e a farci studi via via più approfonditi, giungendo a sistematizzare le sue intuizioni nel metodo che oggi  conosciamo e che sta conoscendo una sempre maggiore diffusione.

Nella prospettiva dell’EMDR i sintomi e le patologie sono causati da una memorizzazione incompleta e disfunzionale dei ricordi delle esperienze dolorose, da quelle più lontane a quelle più recenti. Esempi di queste esperienze possono essere i lutti di persone care o animali domestici, incidenti, separazioni e divorzi, malattie proprie o di persone care, stress nelle relazioni come conflittualità frequente (in famiglia, nella coppia o sul lavoro) o episodi di violenza (fisica, psicologica o sessuale), trascuratezza e maltrattamenti durante l’infanzia, calamità naturali come terremoti e alluvioni.

La teoria su cui si basa l’EMDR è la teoria dell’elaborazione adattiva dell’informazione, secondo la quale in condizioni normali le informazioni derivanti dalle esperienze di vita vengono elaborate correttamente dal nostro cervello nelle reti neurali, se invece questo non avviene, la memorizzazione risultata frammentata e tu puoi sperimentare vari tipi di disagi, in cui hai sensazioni fisiche spiacevoli, insieme ad emozioni dolorose e idee distorte su di te.

In qualche caso il tuo disagio può diventare anche un vero e proprio disturbo, come il disturbo da stress post traumatico (DPTS), in cui hai reazioni esagerate di allarme a stimoli innocui, incubi e flashback insieme ad un appiattimento emotivo e all’evitamento delle situazioni che ti ricordano quella traumatica passata.

Come funziona l’approccio EMDR? Dopo averti informato e preparato adeguatamente con una serie di domande, durante la seduta di EMDR vado a stimolare i tuoi movimenti oculari alternati per rimettere in connessione i tuoi due emisferi cerebrali.

Questa stimolazione fa sì che la tua esperienza soggettiva, precedentemente molto carica di emozioni spiacevoli come paura intensa, tristezza, orrore, iper-allarme, rabbia e impotenza, diminuisca fino ad azzerarsi e tu possa mantenere soltanto la parte più cognitiva, cioè razionale, del ricordo legato all’esperienza dolorosa. Ci tengo a dirti che non è possibile (nè sarebbe desiderabile) rimuovere i ricordi dalla tua mente, nè tantomeno privarti dei ricordi positivi legati agli eventi su cui andiamo a lavorare: si va ad eliminare solo la parte di emotività dolorosa che ti impedisce di vivere serenamente nel tuo presente condizionandoti nelle tue scelte.

Questi passaggi, la desensibilizzazione e l’elaborazione, sono resi possibili da cambiamenti reali osservabili nelle aree cerebrali della memoria: con le neuroimmagini si vede che, dopo l’EMDR, risultano più attive aree corticali in cui vengono associate le componenti di un ricordo rispetto alle aree limbiche dove predomina la forte attivazione emotiva (basti pensare all’amigdala e al suo ruolo nelle risposte di paura). Questo approccio ha perciò una solida base neurofisiologica: le informazioni frammentate si riorganizzano in percorsi neurali integrati, riattivandosi il tuo innato sistema neurofisiologico orientato alla guarigione.

La ricerca scientifica afferma oggi che questo approccio è il trattamento d’elezione nella cura del disturbo da stress post traumatico (DPTS), ma è molto utile anche nei disturbi dell’umore, d’ansia, del comportamento alimentare e nelle esperienze che ti ho elencato all’inizio dell’articolo. La sua efficacia è comprovata da moltissimi studi scientifici degli ultimi 20 anni. I suoi punti di forza sono, appunto, l’indiscussa efficacia, l’applicabilità a persone di tutte le età, compresi i bambini. Inoltre, si tratta di un metodo molto rapido, che può portare benefici anche in una singola seduta, in generale comunque alcune sedute sono necessarie per portare a termine l’elaborazione.

I pensieri negativi si attutiscono o vengono percepiti più distanti, come sfocati, come pure le emozioni e le sensazioni fisiche spiacevoli che diminuiscono fino a scomparire, le tue idee su di te si modificano. Non ti senti più “difettoso”, non amabile, non al sicuro, non in controllo: ti spogli degli effetti traumatici delle esperienze passate e riacquisti la libertà di scegliere, si rafforzano in te il senso di sicurezza, la padronanza e l’autostima.

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Il lutto andare oltre il dolore e ricominciare. Parte seconda.

Essere in lutto: in questo secondo articolo dedicato al lutto voglio parlarti in dettaglio dei processi che occorre attraversare quando sperimenti la morte di una persona a te cara per andare oltre il dolore e ricominciare una vita ricca di significato.

Tali processi corrono paralleli alle 3 fasi del cordoglio descritte nel primo articolo, le fasi dell’evitamento, del confronto e della guarigione (o accomodamento). Non aspettarti di procedere spedito “senza macchia e senza paura”: elaborare un lutto è un compito doloroso e complesso, che necessita di tempo e si svolge secondo modalità che rispecchiano anche le tue caratteristiche individuali.

Tuttavia, è una cosa fisiologica: sei dotato in quanto essere umano dell’equipaggiamento necessario per svolgere questo compito. Sono qui per indicarti un percorso a tappe. Mi rifaccio, come nel primo articolo, agli studi di Therese Rando, e ti illustro la sua mappa per l’elaborazione del lutto, che prevede 6 processi, i cosiddetti 6 “R”.

I 6 R dell’elaborazione del lutto 

  1. Riconoscere la perdita: come prima cosa quel che devi fare è ammettere a te stesso che hai perso una persona cara. Riconoscere la morte significa comprendere fino in fondo che si tratta di un evento definitivo. Inizialmente puoi non accettare al 100% tale evento, solo una parte di te, quella logico-cognitiva, è in grado di farlo: la tua parte più viscerale, quella emozionale, resiste. Non si concede di immergersi nell’esperienza del dolore, può farlo in modo altalenante, facendo alcuni passi avanti ed altri indietro, la progressione non è lineare e senza intoppi. Non preoccuparti, è normale. Ci vuole del tempo affinchè tu possa accettare con tutto te stesso la morte della persona cara: inizia comunque questo processo riconoscendo la perdita, se non lo fai, puoi pensare dentro di te che si tratti di una cosa temporanea, “un’assenza” della persona cara, credendo che in qualche modo tornerà da te, così facendo non potrai elaborare il lutto e ricominciare la tua vita. Per questa ragione è assolutamente necessario avere la conferma della morte attraverso la visione delle spoglie, l’organizzazione del rito funebre: se questi riti simbolici non avvengono puoi rinviare il cordoglio, mantenendo la speranza che la persona cara sia ancora viva, “da qualche parte”. Questo è tanto più vero quanto più una morte giunge improvvisa: è necessario avere delle prove dell’effettiva morte, per poter iniziare la sua sana elaborazione. E’ poi necessario che tu conosca i dove, i quando e i perchè della morte: dev’essere un evento contestualizzato, di cui puoi darti una spiegazione. Questo non attutisce il tuo dolore, ma ti consente di essere lucido e presente, anzichè confuso e disorientato.
  2. Reagire alla separazione: in questo processo inizi a reagire al distacco dalla persona cara a più livelli, sociale, comportamentale, fisico, emozionale e spirituale. E’ necessario che ti dai il permesso, per quanto difficile sia, di entrare nel cordoglio. All’inizio è probabile che cerchi di ritardare o respingere questo processo, per evitare comprensibilmente questa full-immersione nel dolore: accade quando metti in atto i comportamenti di ricerca che ti ho descritto nel primo articolo. Ma è anche grazie a questi tentativi di negazione della morte, vedendoli fallire, che ti rendi conto della natura stessa della morte quale evento definitivo. Sappi che le emozioni non riconosciute e non espresse rendono più probabile un esito patologico, cioè “l’incancrenirsi” del lutto che diviene da normale a patologico. E’ importante che superi tutte le resistenze e ti concedi di sperimentare ogni emozione correlata alla persona cara, sia quelle piacevoli che quelle spiacevoli: ciò ti aiuta ad affrontare consapevolmente il lutto, a trovare adeguati modi di esprimere queste emozioni e ad avviare un problem solving (risoluzione dei problemi) per riprendere maggior controllo sulla tua vita.
  3. Ricordare e rifare esperienza del defunto e della relazione con lui: se la persona deceduta aveva un ruolo cruciale nella tua vita, il tuo compito è modificare diversi aspetti per riadattarti all’assenza fisica di questa persona. Un tempo si pensava che un lutto era davvero elaborato, cioè digerito, quando rinunciavi del tutto all’attaccamento emotivo verso il defunto, quando ritiravi completamente la tua energia psichica (e quindi la tua attenzione e le tue azioni) dal defunto. Oggi si ha un’idea parzialmente diversa: non è necessario un taglio netto ma una modifica, in qualche caso più sostanziosa, ed una trasformazione della relazione tra te e il defunto che non può più nutrirsi della sua presenza materiale. Per te questo processo richiede richiamare alla memoria la persona cara morta e la relazione che hai avuto con lei: come prima cosa devi individuare le cose irrisolte, “le questioni in sospeso”. Poi devi ricordare il defunto in ogni suo aspetto, non soltanto in quelli più positivi o idealizzati, ma nemmeno solo in quelli negativi e penalizzanti. Per attraversare con successo questo processo devi rivedere nell’insieme la personalità del defunto e la relazione avuta: presta attenzione ed esprimi emozioni e pensieri spiacevoli, di ansia, sensi di colpa, rabbia, tristezza, come pure di gioia, gratitudine e soddisfazione. Anche in questo processo puoi avere delle normali resistenze, se però ti dai il permesso di ri-esperire il defunto in modo onesto vedrai queste resistenze svanire: divieni più consapevole, lucido ed obiettivo. Puoi vedere da quanti “fili” è composto il legame con il defunto: il bisogno di quella persona e di quella relazione, unica e speciale, i significati condivisi, le convinzioni, le speranze, i desideri e i progetti pensati insieme. Dopo che hai rievocato e rivissuto nella tua memoria questi aspetti sei in grado di abbandonare questi vecchi fili, ormai logori, ed “aggiornarli”, tessendone di nuovi: questo non significa che il defunto viene dimenticato o che smetti di pensarlo ed amarlo, i legami non vengono falciati, ma modificati in base alla nuova realtà.
  4. Abbandonare i vecchi legami con il defunto e le vecchie visioni di te e del mondo: questo processo consiste nel trasformare la relazione con la persona cara deceduta in modo compatibile con la nuova vita che si apre davanti a te, per fare questo devi rivedere le visioni di te e del mondo che hanno fatto parte della tua vita prima del lutto. Le visioni di te e del mondo includono tutte le tue credenze, le cosiddette “certezze”, che col tempo diventano abitudini e modalità automatiche di comportamento, pensiero e reazione agli eventi di vita. Sono i filtri che tu applichi agli altri e agli eventi per attribuirvi un significato. Un lutto può demolire queste credenze: se ad esempio la persona a te cara muore per via di una malattia improvvisa mentre godeva di buona salute, questo può demolire la credenza, magari inconsapevole, che chi è in buona salute è invulnerabile o al riparo, oppure, se muore per via di un incidente stradale questo può incrinare la credenza che Dio è misericordioso e protegge le brave persone. La morte, poi, viola sempre una credenza molto radicata in tutti i rapporti umani: la certezza, illusoria, che quella persona amata resterà sempre con te.
  5. Riadattarti alla tua nuova vita nel mondo senza dimenticare quella precedente: in questo processo di abbandono del vecchio in favore del nuovo, fai una transizione a livello sia interiore sia sociale: il risultato si vede quando sviluppi una visione nuova di te stesso, della tua identità, del mondo e della relazione con il defunto, e costruisci nuovi significati e un nuovo adattamento alla realtà. Questa ricostruzione è tanto più ampia quanto importante è stato il defunto e la relazione con lui: il suo ruolo, la sua influenza e le perdite secondarie. Puoi imparare a prenderti cura di te in un modo che prima faceva il defunto, puoi portare avanti una sua mansione o sviluppare un tuo talento come mai prima d’ora. Come già detto, non è necessario un taglio netto totale con il legame con il defunto: elaborare il lutto non significa “dimenticare il passato” e “lasciarsi ogni cosa alle spalle”. Non considerare sbagliata la volontà di mantenere una connessione con il defunto, piuttosto domandati come puoi costruirne una che non ti tenga i piedi nel passato, ma nel presente e con una buona marcia per il tuo futuro. Se hai accettato che la persona a te cara è davvero morta e sei in grado di andare avanti in modo funzionale nella tua vita allora l’elaborazione del lutto è completa. Puoi mantenere una sana relazione con il defunto attraverso dei simboli e dei rituali (non in senso ossessivo), come commemorare e celebrare certe date, usare oggetti come fotografie, vestiario e altri articoli. Ricorda però che la cosa più importante è onorare la memoria del defunto attraverso la tua vita e le tue azioni: porta avanti l’eredità del defunto attraverso di te. Riconosci che il lutto ha cambiato la persona che sei: parti di te sono morte con la perdita della persona cara. Parti della tua identità non ci sono più, o almeno sono mutate: se il defunto era tuo marito/tua moglie/tuo fratello/tuo figlio, i tuoi ruoli corrispondenti sono cambiati. Vai a transitare da un senso del “noi” all’ “io”: in questo processo acquisti nuovi ruoli in società, in famiglia, nel lavoro, ne perdi di vecchi e ne modifichi altri. “Muti la pelle” restando comunque te stesso.
  6. Reinvestire: dopo che avrai usato una piccola parte della tua energia nel modificare la relazione con il defunto, potrai finalmente utilizzarla per la maggior parte per reinvestirla verso nuovi scopi ed orizzonti. Puoi crearti nuove opportunità, aprirti di nuovo alla vita e alle relazioni: questo non significa che la persona cara deceduta viene rimpiazzata dal nuovo, non è una cosa nè possibile nè desiderabile. In realtà metti te stesso in scopi ed attività che ti danno gratificazione, che danno nuovo carburante alla tua vita, anche per merito del posto e del significato che il defunto ha avuto ed avrà per te.

 Vai qua per la prima parte dell’articolo: http://federicapianapsicologa.it/il-lutto-andare-oltre-il-dolore-e-ricominciare-parte-prima/

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